mercoledì 25 gennaio 2012

Le lotte per il trono della Regina Vittoria.

Una donna sul trono d'Inghilterra? Che sciocchezza!
Così tuonò il principe Giorgio di Cambridge dopo essere stato scalzato dalla successione al trono dalla cugina minore, la principessa Vittoria, ma non si può certo dire che la sua fosse una voce fuori dal coro, infatti a quell'epoca (prima metà dell'800) questo era un pensiero comune.
Giorgio di Cambridge

Il pensiero maschilista non fu l'unica cosa a remarle contro, infatti il suo "scomodo" nome non la aiutò affatto. Se Vittoria a noi sembra un nome tipicamente inglese, all'inizio del diciannovesimo secolo non lo era affatto, al contrario, veniva considerato del tutto improprio per una regina d'Inghilterra.
Il nome Vittoria (Victoria) era infatti un nome di origine francese e la Francia di Napoleone era stata, fino a pochi anni prima la più acerrima nemica della Gran Bretagna.

Le difficoltà non erano comunque legate solo al sesso e al nome, la giovane principessa infatti non poteva proprio dirsi una ragazza graziosa, ed era invece timida e cocciuta. Inoltre era figlia di una donna avida e ben decisa ad usarla come mezzo per assicurarsi il potere (questo risulterà alla lunga la difficoltà maggiore nella corsa al trono).
Vittoria si rivelerà comunque una ragazza di carattere, forte ed energica e soprattutto determinata a diventare regina.

Ma facciamo un passo indietro...
La nascita della piccola Vittoria, il 24 maggio del 1819, riempì di entusiasmo il padre (il duca Kent), ma lasciò piuttosto indifferente il resto del paese.
Una bella principessa, grassa come un maialino.
Queste le parole del duca quando vide per la prima volta la figlia.

Kent era il quarto in linea dinastica, dopo i suoi fratelli, il principe reggente (che diventerà re con il nome di Giorgio IV), il duca di York e il duca di Clarence. Agli occhi della famiglia reale Vittoria era semplicemente la figlia di un fratello minore, utile merce di scambio per un futuro matrimonio combinato.
La bambina era venuta alla luce nel mezzo di una crisi di successione, quando nel 1817 le 5 figlie e i 7 figli legittimi del re Giorgio III (mentelmente instabile e perciò sostituito nelle funzioni reali dal figlio maggiore, il principe reggente) raggiunsero la mezza età, individuarono come legittima erede la principessa Carlotta, figlia del reggente. Il popolo inglese vedeva in Carlotta una speranza per il paese, così diversa dai suoi zii dissoluti e scialacquatori e dalle zie zitelle.
 Quando la principessa restò incinta del marito (il principe Leopoldo si Sassonia-Coburgo) la gente ne fu entusiasta. Ma dopo 50 ore di travaglio, la sfortunata principessa diede alla luce un bambino morto, per poi morire lei stessa poco dopo.
Il paese cadde nello sconforto , mentre il mondo politico fu preso dal panico poichè l'Inghilterra era priva di un erede. Fu così che, anche nella speranza che il parlamento saldasse i loro debiti, i duchi si scatenarono in una vera e propria corsa per sposarsi e assicurarsi un erede. Il duca di Kent liquidò quella che era stata la sua amante per vent'anni e si mise a corteggiare la sorella del principe Leopoldo, Vittoria, vedova del principe di Leiningen. Inizialmente riluttante a rinunciare alla sua "gradevole posizione di indipendenza" per sposare il duca (indebitato e di 20 anni più grande di lei) dovette piegarsi all'imposizione del fratello. Nonostante le iniziali resistenze di lei e i debiti di lui, il matrimonio fu felice e Vittoria rimase presto incinta.
Edward, duke of Kent and Strathearn

Il principe reggente si infuriò quando seppe che il fratello era riuscito a mettere al mondo un erede e si vendicò al momento del battesimo, ammettendo alla cerimonia pochi invitati e negando alla bambina un "nome da regina" come Carlotta, Augustina o Georgiana. Così il giorno del battesimo l'arcivescovo di Canterbury si trovò davanti al fonte battesimale con la neonata, in attesa di un nome.
Alla fine il principe reggente con disprezzo disse:
Datele il nome della madre.
Vittoria di Sassonia-Coburgo-Saalfeld

La bambina venne così battezzata con il primo nome di Alessandrina, in onore del padrino (lo zar Alessandro, che il reggente accettò per non suscitare l'ira del sovrano russo), ma venne fin da subito chiamata con il secondo nome... Vittoria.

Alla prossima per la continuazione... ;)

lunedì 9 gennaio 2012

domenica 8 gennaio 2012

Storia italiana, ricchezza dell'umanità.

Il patrimonio alrcheologico del nostro Paese costituisce il 40% di quello mondiale, ma noi non solo non ce ne rendiamo conto ma lo trascuriamo.

Quando si parla di beni artistici e archeologici, troppo spesso noi italiani dimentichiamo che questo immenso patrimonio non è solo il nostro oro nero ma rappresenta ciò che siamo.
Se capissimo questo forse impareremmo anche a preservare tale ricchezza, considerando che in questo momento la tutela fa acqua da tutte le parti. Tra crolli e allagamenti di siti riconosciuti come Patrimonio dell'umanità dalla Domus Aurea a Pompei abbiamo perso qualcosa di inestimabile che il mondo intero ci invidia.
Del resto ciò è facilmente prevedibile se si pensa che in Italia non è riconosciuta la figura professionale dell'archeologo. Sono nati corsi universitari collegati alla tutela e conservazione dei beni culturali ma siamo ancora sprovvisti di un albo e un tariffario, nonostante il percorso di studi per arrivare alla qualifica sia lungo e complesso.
Dopo i tagli dell'ultima Finanziaria Tremonti le Soprintendenze non hanno nemmeno più i soldi per tagliare l'erba nei siti e hanno persino tolto i rimborsi benzina per i sopralluoghi (che potrebbero anche servire per presidiare il nostro territorio e prevenire il rischio idrogeologico).

Del nostro patrimonio archeologico fanno parte alcuni siti di fama mondiale, come il Colosseo e la Domus Aurea. Eppure anche luoghi eccezionali come questi, che attraggono milioni di visitatori ogni anno, non sono stati sottratti all'incuria e al degrado, come hanno dimostrato i crolli di Pompei.

La soluzione in molti casi è stata quella del commissionamento (modello d'intervento che ha suscitato molte polemiche), un rimedio che gli addetti ai lavori vedono come fumo negli occhi, perchè molto costoso e affidato a qualcuno che non ha le competenze tecniche e culturali necessarie.
Molto si potrebbe fare per valorizzare anche i siti "minori" (che a volte non sono nemmeno segnalati), spesso nemmeno visitabili a causa della carenza di personale(nemmeno su prenotazione).

Il nostro patrimonio va tutelato perchè è Nostro, ci racconta quello che siamo, si è salvato nei secoli fino ai giorni nostri e oggi rischiamo di mandarlo in malora. Il mio non è solo il discorso di un'amante della storia, ciò potrebbe portare una grandissima entrata monetaria derivante dal turismo se solo riuscissero ad organizzare e preservare meglio la situazione.

sabato 7 gennaio 2012

Il tragico destino di Mafalda di Savoia.

Mafalda di Savoia nata a Roma il 19 novembre 1902 e morta a Buchenwald il 28 agosto 1944 era la secondogenita del re d'Italia Vittorio Emanuele III e della regina Elena del Montenegro e sorella di Umberto II.

Mafalda Maria Elisabetta Anna Romana, Muti il suo soprannome, di indole docile e obbediente, ereditò dalla madre Elena il senso della famiglia, i valori umani, la passione per la musica e per l'arte.
Si sposò a Racconigi, il 23 settembre 1925, con il langravio Filippo d'Assia ed ebbe quattro figli:
  • Maurizio d'Assia
  • Enrico d'Assia
  • Ottone d'Assia
  • Elisabetta d'Assia

Pur non riconoscendo alcun titolo nobiliare, il partito nazista assegnò a suo marito Filippo un grado nelle SS e vari incarichi.
Benché fosse figlia del Re d'Italia, e legatissima alla sua famiglia di origine, era anche e soprattutto cittadina tedesca, principessa tedesca, moglie di un ufficiale tedesco, quindi sicura che i tedeschi l'avrebbero rispettata( Hitler le conferì perfino la croce al merito come a tutte le mamme di numerosa prole).

Nel settembre del 1943, alla firma dell'armistizio con gli alleati, i tedeschi organizzarono il disarmo delle truppe italiane, Badoglio e il re fuggirono al Sud, ma Mafalda che l'8 settembre si trovava in Bulgaria per assistere la sorella  Giovanna, il cui marito Boris III era in fin di vita fu tenuta all'oscuro di quello che stava accadendo (forse si temeva che potesse parlare con il marito).
In quel momento delicato si trovò a rientrare a Roma, durante il viaggio la regina Elena di Romania la avvisò dell'armistizio (aveva fatto fermare appositamente il treno e aveva tentato di farla desistere dal rientro in Italia) ma Mafalda volle proseguire.

Giunta a Roma il 22 settembre ( fece appena in tempo a rivedere i figli) venne chiamata al comando tedesco con urgenza, per l'arrivo di una telefonata del marito da Kassel in Germania. Un tranello: in realtà il marito era già nel campo di concentramento di Flossenbürg. Mafalda venne subito arrestata e deportata dopo vari trasferimenti nel campo di concentramento di Buchenwald, dove fu rinchiusa nella baracca 15 con il falso nome di frau von Weber.

Nel campo di concentramento le venne riconosciuto un particolare riguardo: occupava una baracca ai margini del campo insieme ad un ex-ministro socialdemocratico e sua moglie; aveva lo stesso vitto degli ufficiali delle SS, molto più abbondante e di migliore qualità rispetto agli altri internati. Le venne assegnata come badante la signora Maria Ruhnan, Testimone di Geova deportata per motivi religiosi; questa fu una figura molto importante per la principessa, la quale in punto di morte chiese che il suo orologio le fosse regalato come segno di riconoscenza. Il regime, pur privilegiato rispetto a quello di altri prigionieri, fu comunque duro: la vita del campo e il freddo invernale intenso la provarono molto. Malgrado il tentativo di segretezza attuato dai nazisti la notizia che la figlia del Re d'Italia si trovava a Buchenwald si diffuse.
Nell'agosto del 1944 gli angloamericani bombardarono il lager, la baracca in cui era prigioniera la principessa fu distrutta e lei riportò gravi ustioni e contusioni varie su tutto il corpo. Fu ricoverata nell'infermeria della casa di tolleranza dei tedeschi del lager, ma senza cure le sue condizioni peggiorarono. Dopo quattro giorni di tormenti, a causa delle piaghe insorse la cancrena e le fu amputato un braccio. Ancora addormentata, Mafalda venne abbandonata in una stanza del postribolo, privata di ulteriori cure e lasciata a se stessa. Morì dissanguata, senza aver ripreso conoscenza, nella notte del 28 agosto 1944.

L'intervento fu lunghissimo e secondo molti ciò fu intenzionalmente fatto proprio per provocarle la morte (il metodo delle operazioni esageratamente lunghe o ritardate era già stato applicato a Buchenwald, ed eseguito sempre dalle SS su altre personalità di cui si desiderava sbarazzarsi).


CURIOSITA':
Dopo essere stata diseppellita dalle macerie, causate dal bombardamento alleato, Mafalda venne stesa su una scala a pioli per essere trasportata nella squallida casa che era stata adibita a infermeria. Nel tragitto notò due italiani dalla "I" che avevano cucita sulla giubba. Fece segno di avvicinarsi col braccio non ferito e disse loro:
«Italiani, io muoio, ricordatevi di me non come di una principessa, ma come di una vostra sorella italiana».

venerdì 6 gennaio 2012

Jane Austen avvelenata dalla famiglia?

L'ormai famosa scrittrice muore nel 1817 e per una famosa giallista inglese fu omicidio.

Lo rivelerebbero le sue ultime lettere: Jane Austen, autrice di alcune delle storie d'amore più romantiche della fine del settecento britannico morì avvelenata. Lo ipotizza in un libro la giallista inglese Lindsay Ashford.
Nel 1817, pochi mesi prima di spegnersi in modo misterioso a 41 anni, l'autrice scrisse riguardo al malessere che l'aveva perseguitata nelle ultime settimane:
Ora mi sento decisamente meglio e sto recuperando un po' il mio colorito, finora piuttosto brutto, nero e bianco e di ogni altro peggior colore.
Prova inconfutabile, assicura la Ashford, di una pigmentazione "a gocce di pioggia", sinonimo di un lento avvelenamento da arsenico. L'ipotesi rinforzata dalle tracce del veleno trovate a metà del secolo scorso in una ciocca di capelli della Austen, escluderebbe le altre presunte cause di morte avanzate finora dagli storici, dal tumore al lupus, dalla tubercolosi bovina al morbo di Addison.
E' possibile che la scrittrice avesse assunto il veleno, all'epoca prescritto spesso come medicina, per curare i reumatismi, ma da buona giallista la Ashford non esclude neppure l'omicidio premeditato, motivato da vecchie liti familiari. Alcuni studiosi della Austen hanno però rispedito l'ipotesi al mittente.